In America cade l'obbligo vaccinale per l'epatite B alla nascita, mentre l'Europa osserva
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Redazione Salute
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Una decisione destinata a far discutere, quella assunta dal comitato consultivo sui vaccini dei Centers for Disease Control and Prevention statunitensi, che ha votato per abolire la raccomandazione, in vigore da oltre trent'anni, di somministrare a tutti i neonati la prima dose del vaccino contro l'epatite B entro le prime ventiquattro ore di vita.
La nuova indicazione, che attende ora la formale approvazione del direttore facente funzione dell'agenzia federale, segna un distacco netto dalle politiche di immunizzazione universale in età neonatale, un approccio che, seppur con sfumature diverse, rimane invece saldo nel Vecchio Continente e in Italia.
La mossa arriva in un clima politico delicato, sullo sfondo delle recenti esortazioni del presidente Donald Trump alle autorità sanitarie affinché riesaminino i calendari vaccinali pediatrici, da lui giudicati troppo densi.
Il modello europeo e la pratica svizzera
A fare da contraltare alla svolta d'Oltreoceano, c'è la prassi consolidata in diverse nazioni europee, la quale, pur non imponendo la vaccinazione universale immediata, mantiene una strategia protettiva molto solida.
Come ha chiarito una specialista, in Svizzera si procede con una immunizzazione mirata, somministrando il vaccino nelle prime ventiquattro ore esclusivamente ai bambini nati da madri risultate positive al virus dell'epatite B, un dato ottenibile grazie allo screening obbligatorio offerto a tutte le donne in gravidanza.
Per tutti gli altri neonati, figli di madri negative, la vaccinazione è comunque fortemente raccomandata e viene effettuata entro il secondo mese di vita, all'interno del consueto ciclo del vaccino esavalente.
Questo sistema, che apparentemente potrebbe sembrare distante da quello americano ormai abbandonato, viene in realtà giudicato dagli esperti non così divergente negli obiettivi di copertura, pur seguendo percorsi temporali differenti.
La reazione preoccupata della virologia italiana
Le notizie provenienti dagli Stati Uniti hanno suscitato un moto di viva preoccupazione in una parte del mondo scientifico italiano, come dimostrano le parole del virologo Fabrizio Pregliasco, il quale ha definito "rivoltanti" le scelte americane e l'intera situazione "veramente inquietante".
La sua critica, espressa con toni decisi, si concentra sul rischio concreto di un ritorno di malattie infettive gravi ma perfettamente prevenibili, un pericolo che, a suo avviso, viene sottovalutato da decisioni politiche e amministrative che sembrano discostarsi dalle evidenze della medicina.
L'ira dello scienziato non è isolata e riflette un timore diffuso tra gli addetti ai lavori, i quali osservano come simili inversioni di rotta possano minare la fiducia del pubblico nei confronti di strumenti salvavita, frutto di decenni di ricerca.
La situazione nello Stivale e le prospettive
In Italia, il calendario vaccinale nazionale continua a prevedere la vaccinazione contro l'epatite B per tutti i nuovi nati, senza variazioni nell'immediato. La prima dose è offerta, assieme a quella per altre cinque patologie, nel corso del terzo mese di vita, secondo uno schema che ha garantito un controllo efficace della malattia.
Il sistema sanitario nazionale, pur non adottando la somministrazione in sala parto, persegue l'obiettivo dell'immunizzazione universale attraverso un percorso leggermente più diluito ma altrettanto vincolante, considerando il vaccino obbligatorio per l'accesso ai servizi educativi dell'infanzia.
Questo framework, che concilia scienza e pratica organizzativa, rappresenta al momento la via italiana, saldamente ancorata ai principi della prevenzione collettiva e distante dalle turbolenze politiche che stanno scuotendo il panorama d'Oltre Atlantico.




