Campedelli, il sogno e l’ossessione del Chievo: “Era già nostra la stella di Drogba”

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Redazione Sport Redazione Sport   -   A rileggere oggi le sue parole, che affondano in un passato glorioso e in un presente amaro, si comprende la dimensione di una perdita che va oltre il semplice fallimento societario.

Luca Campedelli, tratteggiando con parole misurate ma cariche di emotività il percorso che lo ha legato al Chievo, restituisce l’immagine di un amore totale, di quelli che segnano un’esistenza intera.

“Del calcio mi sono innamorato a 3 anni”, ha ricordato, sottolineando come quello sport non sia stato mai soltanto un business, bensì un linguaggio attraverso il quale costruire un legame più profondo con il padre e apprezzarne “ancora di più l’umanità”.

Una passione viscerale, dunque, che si è trasformata in progetto e poi in miracolo concreto quando il piccolo club di Verona è approdato in Serie A, scrivendo una delle favole più belle del calcio italiano.

Quel miracolo, però, si è infranto contro una realtà spietata, fatta di circostanze esterne e, a suo dire, di una mancanza di sostegno quando più sarebbe servito. telenuovo +3

Il “delitto perfetto” e la strada interrotta

Campedelli definisce senza mezzi termini la fine del Chievo come un “delitto perfetto”, Titolo scelto per il libro che racchiude la sua verità su quegli eventi. La sua ricostruzione è netta: la pandemia da Covid-19 ha agito da detonatore, ma non è stata la causa prima del dissesto.

“Senza il Covid il Chievo sarebbe ancora in vita perché noi non avevamo problemi economici”, afferma con decisione, spiegando che gli stipendi erano stati regolarmente pagati.

Il punto di non ritorno, secondo la sua testimonianza, arrivò nel settembre 2020 con un provvedimento che “bloccava tutte le rateizzazioni”, strangolando la società in un lasso di tempo che lui considera incredibilmente breve.

“Il Chievo è stato cancellato in sette giorni”, ha dichiarato, aggiungendo con un tono che tradisce ancora frustrazione che, dato più tempo, avrebbe trovato una soluzione. “Nessuno mi ha ascoltato e mi ha dato una mano”, è l’amara constatazione che chiude un capitolo della sua vita e del calcio italiano. mediaset +3

I grandi nomi mancati e il valore di una squadra

Tra gli aneddoti che costellano l’intervista, spiccano quelli legati a due campioni assoluti, Didier Drogba e Edinson Cavani, le cui strade avrebbero potuto incrociarsi precocemente con quelle del club gialloblù. Campedelli rivela che “Drogba era già del Chievo”, mentre per Cavani si parlò di un provino che però non superò.

Questi dettagli, più che mere curiosità storiche, servono a lui per rimarcare la portata del progetto sportivo e l’acume del suo collaboratore, definito “dirigente top”.

Sono frammenti di un mosaico che componeva l’identità di una società solida e ambiziosa, capace di guardare lontano e di competere sul mercato con occhio attento, prima che gli eventi esterni ne decretassero la fine. Parlare di quelle occasioni mancate significa, in fondo, ribadire il potenziale che è stato spazzato via. gazzetta +3

La malattia chiamata Chievo e un futuro da folle

Nonostante il dolore per una vicenda che lo ha segnato profondamente, al punto da condurlo a gesti estremi di cui parla con rispetto e senza indugiare in particolari, la fiamma in Campedelli non si è spenta. “Sarò un folle, ma io sogno ancora di riportare in vita il mio Chievo”, confessa, definendo questo attaccamento una “malattia”.

È la stessa passione visionaria che aveva guidato l’ascesa del club, e che ora persiste come un’ossessione malgrado tutto. Il suo racconto, che si dipana tra ricordi luminosi e ombre profonde, non è quindi una semplice rievocazione, ma il manifesto di un legame indissolubile.

Un legame con una maglia, con un’idea di calcio e con un pezzo di sé che, forse, non si rassegna a essere archivato come un semplice episodio del passato. gazzetta +3